Per queste feste, augurandovi la gioia del Natale che è speranza, lo spirito del Natale che è pace, l'essenza del Natale che è amore. Tantissimi auguri dallo Studio Legale D'Oria.
21 dicembre 2012
20 dicembre 2012
Si al demansionamento se l'alternativa è il licenziamento.
La corte d'Appello di Milano (sent. nr. 7403 pubblicata il 13/09/12), ribadisce il principio secondo il quale, nel diritto del lavoro, il licenziamento sia da intendersi quale extrema ratio nei confronti del lavoratore e il datore di lavoro deve esperire ogni possibile rimedio finalizzato alla conservazione del posto.
In particolare, secondo una "gradazione" ben tipizzata dalla giurisprudenza, qualora il lavoratore, per ragioni oggettive, sia impossibilitato alla prestazione precedente (per crisi aziendale, per soppressione del reparto, per modernizzazione degli impianti ecc.), vi è obbligo, per il datore di lavoro, di "assegnarlo" a diverse mansioni purchè riconducibili a quelle già svolte oppure di grado equivalente (stante l'art. 2103 c.c. che vieta tassativamente il "demansionamento"). Qualora neanche questo rimedio sia esperibile, ben si può adibire il lavoratore a mansioni inferiori, purchè tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa. Tale "patto di dequalificazione" non costituirebbe una deroga all'art. 2103 c.c. (soprattutto all'ultimo comma, che vieta espressamente qualsiasi "patto"), ma, secondo la CdA di Milano, rappresenterebbe un "adeguamento" del contratto alla nuova situazione aziendale di fatto, sorretto dal consenso e dall'interesse del lavoratore. La ratio è chiara: si vuole evitare che l'art. 2103 c.c., sorto per tutelare il lavoratore, finisca, al contrario, per arrecargli un pregiudizio. Qualora, infine, nemmeno questo rimedio sia esperibile, allora il datore di lavoro ben potrà intimare il licenziamento, senza incorrere nell'illegittimità dello stesso.
18 dicembre 2012
Separazione: adulterio apparente e presunto.
Una recente sentenza della Cassazione in tema di separazioni coniugali (nr.17195/12), ha confermato il principio (peraltro più volte elaborato in dottrina) secondo il quale può essere addebitata la separazione all'ex coniuge anche se l'adulterio sia stato soltanto "apparente", senza consumazione, cioè, del rapporto sessuale, ma scaturito "semplicemente" dalla frequentazione assidua di un'altra persona, posto che tale condotta metterebbe a repentaglio il rapporto di coppia. Ciò ci induce a riflettere sulle tipologie di adulterio elaborate dalla giurisprudenza: e cioè l'adulterio "presunto" e quello, appunto, "apparente". Il primo attiene al regime probatorio: invero la giurisprudenza è pacifica nell'ammettere che esso possa essere desunto soltanto da presunzioni (purchè gravi, precise e condordanti). Non sono dunque indispensabili prove dirette (per esempio la sorpresa in flagranza) e si presuppone che l'adulterio vi sia stato. Ovviamente sono necessari comunque dei fondati riscontri oggettivi (quindi non frutto di gelosia o immaginazione) i quali, se ben motivati dal Giudice, sono insindacabili in sede di legittimità. L'adulterio apparente, invece, individua una condotta del coniuge che, scientemente (quindi con consapevolezza di commettere un fatto lesivo), vìoli il dovere matrimoniale, prescindendo dal fatto che vi sia stato un atto sessuale extra-coniugale. In sostanza, l'adulterio presunto, integra un'offesa all'integrità e all'onore dell'altro coniuge, tenendo conto sia della sensibilità del "tradito", sia dell'ambiente in cui i coniugi vivono. E, in definitiva, tali forme di "adulterio" presuppongono anche la concessione della separazione con l'aggravante dell'addebito.
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