20 dicembre 2012

Si al demansionamento se l'alternativa è il licenziamento.


La corte d'Appello di Milano (sent. nr. 7403 pubblicata il 13/09/12), ribadisce il principio secondo il quale, nel diritto del lavoro, il licenziamento sia da intendersi quale extrema ratio nei confronti del lavoratore e il datore di lavoro deve esperire ogni possibile rimedio finalizzato alla conservazione del posto.
In particolare, secondo una "gradazione" ben tipizzata dalla giurisprudenza, qualora il lavoratore, per ragioni oggettive, sia impossibilitato alla prestazione precedente (per crisi aziendale, per soppressione del reparto, per modernizzazione degli impianti ecc.), vi è obbligo, per il datore di lavoro, di "assegnarlo" a diverse mansioni purchè riconducibili a quelle già svolte oppure di grado equivalente (stante l'art. 2103 c.c. che vieta tassativamente il "demansionamento"). Qualora neanche questo rimedio sia esperibile, ben si può adibire il lavoratore a mansioni inferiori, purchè tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa. Tale "patto di dequalificazione" non costituirebbe una deroga all'art. 2103 c.c. (soprattutto all'ultimo comma, che vieta espressamente qualsiasi "patto"), ma, secondo la CdA di Milano, rappresenterebbe un "adeguamento" del contratto alla nuova situazione aziendale di fatto, sorretto dal consenso e dall'interesse del lavoratore. La ratio è chiara: si vuole evitare che l'art. 2103 c.c., sorto per tutelare il lavoratore, finisca, al contrario, per arrecargli un pregiudizio. Qualora, infine, nemmeno questo rimedio sia esperibile, allora il datore di lavoro ben potrà intimare il licenziamento, senza incorrere nell'illegittimità dello stesso. 

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